Lo scorso due ottobre in Bosnia-Erzegovina si è svolta un’importante tornata elettorale. Si è votato, infatti, per la presidenza nazionale tripartita, per il parlamento delle due entità di cui si compone il paese – Federazione di Bosnia-Erzegovina (l’area in cui si concentrano i cittadini bosniaci croati e musulmani) e la Republika Srpska (o Rs, la zona a maggioranza serba) – e per i deputati dei dieci cantoni in cui è divisa la Federazione. I risultati non sono ancora definitivi, e verranno resi noti dalla Commissione elettorale della Bosnia-Erzegovina (Cik) entro un mese dalle elezioni. Si può comunque affermare, in modo abbastanza certo, la vittoria dei riformisti a livello centrale (che hanno ottenuto due seggi su tre, mentre il terzo è andato alla candidata del partito nazionalista serbo). Un dato definitivo è invece quello dell’astensionismo: appena il 50% degli elettori si è recato alle urne.
La struttura politica della Bosnia-Erzegovina è probabilmente tra le più complesse al mondo, delineata dagli accordi di pace di Dayton del 1995, che hanno posto fine al più tragico e sanguinoso tra i conflitti che hanno marcato la dissoluzione della Jugoslavia. Lo scopo degli accordi era quello di garantire la rappresentatività di tutte le comunità prevalenti. Questo compromesso ha avuto tuttavia come effetto collaterale quello di creare un sistema molto complicato, che rende dunque difficile governare. Il paese, infatti, è formato da due entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, e la Repubblica Serba di Bosnia (Rs), mentre la città di Brcko è un distretto autonomo. La Federazione elegge due membri della presidenza tripartita, che esprimono le due etnie costitutive dell’entità: i bosgnacchi, cioè bosniaci musulmani, e i bosniaci croati, per la maggior parte cattolici. La Rs esprime il terzo componente tra i bosniaci serbi, in prevalenza ortodossi. E questo solo a livello centrale.
A seguito delle ultime elezioni, il seggio bosgnacco della presidenza centrale è andato a Denis Bećirović del Partito socialdemocratico (Sdp), centrosinistra e moderato, escludendo – per la prima volta dalla formazione di questo sistema di governo – il partito nazionalista bosniaco che aveva invece governato per quasi 30 anni. Bećirović ha infatti battuto Bakir Izetbegović, figlio del primo presidente della Bosnia indipendente e lui stesso già due volte presidente. Si tratta probabilmente dell’unica vera novità di queste elezioni. Per il seggio dei croati bosniaci è stato riconfermato Željko Komšić, centrista promotore della creazione di un sistema libero dalle logiche d’identità etnica del paese. La vittoria di Komšić non è però riconosciuta da alcuni croati bosniaci, i quali sostengono che questa conferma sia stata determinata dai bosgnacchi e non dai croati. Questo meccanismo di voto era infatti previsto fino alle elezioni dello scorso due ottobre dalla legge elettorale bosniaca, che consentiva a tutta l’Assemblea cantonale della Federazione di votare per il rappresentante preferito, a prescindere dalla etnia. In altre parole, i bosgnacchi potevano votare per un rappresentante croato e viceversa. Proprio questo aspetto è stato da sempre criticato dal partito nazionalista croato. Infatti, i bosgnacchi non voterebbero mai per un partito che pone totale centralità a politiche di favore per i croati. Essendo poi i primi numericamente di gran lunga superiori ai secondi, il risultato sarebbe una perenne sconfitta dei nazionalisti croati. È questa parte della legge elettorale, così lamentata dall’HDZ BiH (croati nazionalisti), il nodo più controverso delle elezioni.
Immediatamente dopo la chiusura dei seggi, infatti, l’Alto rappresentante della Comunità Internazionale in Bosnia-Erzegovina, Christian Schmidt– figura istituita dagli Accordi di Dayton – ha imposto proprio una modifica della suddetta legge elettorale bosniaca e della Costituzione della Federazione croato-musulmana. Ciò rientra nell’esercizio dei cosiddetti “poteri di Bonn”, che determinano ampi margini di intervento, anche sul piano legislativo. Queste prerogative andrebbero tuttavia esercitate solo come misura di ultima istanza. In particolare, la riforma della legge elettorale riguarda le elezioni della Camera dei popoli, una delle due camere di cui si compone l’Assemblea parlamentare della Bosnia-Erzegovina.
I deputati eletti sono rappresentanti delle comunità principali delle due entità, quindi i croato-bosniaci, i bosgnacchi e i serbi, ai quali spettavano prima della riforma 17 seggi per ciascuna etnia, aumentati poi a 23, mentre per tutti gli altri – minoranze o chi non si identifica in nessuna di queste – si è passati da 7 a 11 seggi. Questa riforma consente alle minoranze che non fanno parte dei tre popoli costitutivi di avere sempre un rappresentante per ogni cantone. La critica portata avanti dai nazionalisti croati riguarda la sottorappresentazione nei cantoni a maggioranza bosgnacca. I rappresentanti croati finirebbero per essere eletti dai bosgnacchi, escludendo per ovvie ragioni i nazionalisti croati. Questo perché prima della riforma voluta da Schmidt ciascuno poteva decidere chi votare, a prescindere dall’etnia. Con la riforma, invece, è stato introdotto un sistema su base etnica: i bosgnacchi votano per i bosgnacchi e così via. Ciò si traduce nell’aumento dei rappresentanti croati nazionalisti in quei cantoni dove ci sono più elettori croati. Inoltre, si premia la proporzionalità nella rappresentanza alla Camera, aumentandola.
Schmidt è stato accusato da più parti – Unione europea compresa – di aver indebolito il sistema Dayton. La riforma, infatti, andava approvata dalla Camera stessa, ma è stata invece semplicemente il frutto di una decisione unilaterale dell’Alto rappresentante. Va comunque notato che questa scelta, seppur controversa, è stata presa al fine di perseguire l’obiettivo di garantire una maggiore governabilità del paese. Non a caso, da ben quattro anni non si riesce a formare un governo nella Federazione.
Per quanto riguarda invece la presidenza della Republika Srpska, secondo i dati aggiornati quotidianamente dalla Cik, nella corsa alla carica di presidente, Milorad Dodik è dato in vantaggio davanti a Jelena Trivić, candidata dell’opposizione. Dodik, infatti, non si è ricandidato alla presidenza nazionale – cioè per il seggio serbo della presidenza nazionale tripartita – ma come presidente della sola entità serba, scambiandosi, per questa posizione, con Željka Cvijanovic, che avrebbe invece vinto il seggio serbo alla presidenza centrale. Cvijanovic, infatti, era la presidente della Rs e membro del partito nazionalista dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), lo stesso di Dodik.
Nei restanti livelli amministrativi, infine, si registra la vittoria dei tradizionali partiti etno-nazionalisti, con l’eccezione della capitale, Sarajevo, e di alcune altre maggiori città, che non sembrano tuttavia rappresentare lo spirito generale del resto del paese.
I risultati di queste elezioni non indicano nessuna particolare novità. Mentre la RS denuncia irregolarità del voto, anche nell’ipotesi in cui le votazioni dovessero riproporsi, non ci sarebbe un cambiamento reale. A
Banja Luka, infatti, non esiste un’opposizione ideologica ma solo politica. Jelena Trivić, in caso di vittoria, agirà probabilmente in piena continuità con Dodik, proseguendo la sua campagna di “indipendenza” dalla Bosnia, con posizioni filorusse all’interno di una cornice dove agli storici scontri tra bosniaci musulmani e serbo bosniaci, si aggiunge un’ulteriore criticità nei rapporti tra le due principali identità della Federazione, croati bosniaci e bosgnacchi, che risultano compromessi anche a causa della riforma elettorale.
Il numero degli eletti, inoltre, è molto elevato, a causa dei vari livelli di governo di un sistema profondamente inefficace, a maggior ragione poi considerando che la Bosnia è un paese in crisi demografica. L’ultimo censimento risale al 2013, e già all’epoca i residenti registrati furono tre milioni e mezzo di persone, un numero che oggi potrebbe rivelarsi ancora più basso.
Il 12 ottobre scorso la Commissione europea ha raccomandato di concedere lo status di candidato all’Ue alla Bosnia-Erzegovina – condizionando però questo sviluppo all’attuazione di varie riforme. Tuttavia al momento, in un contesto in cui una parte del paese è apertamente schierata a favore del presidente russo Putin nella guerra in Ucraina e in cui continuano le spinte secessioniste e i perpetui contrasti tra le varie identità della popolazione, questa raccomandazione potrebbe rivelarsi come l’ennesima occasione mancata.
Chiara Vilardo